Durante la ricreazione, una folla di ragazzini di terza ci stava cantando la solita canzoncina e, quando arrivarono alla parola RATTI, ce la urlarono in faccia, tutti insieme. Poi scapparono ridendo.
– Mi piacerebbe essere ancora in terza – dissi.
– Io no..., neanche un po’ – disse Joey, arrampicandosi sul quadro svedese. – Ho aspettato tre anni per essere un ratto. Adesso lo sono. E ne sono fiero! Mi arrampicai anch’io. Ma mi scivolò una scarpa, persi la presa e caddi. Atterrai sulla mano e il pollice mi si piegò molto all’indietro.
Dolore! Gridai. Fortissimo.
Faceva male e mi restava solo una cosa da fare. Mi misi a piangere.
Dall’alto del quadro mi giunse la voce di Joey:
– Schizzo! I ratti non piangono.
Più tardi, a casa, disteso sul letto e incredulo continuavo a ripetere:
– Non voglio essere un ratto! Non voglio!
La mamma si sedette accanto a me.
– Senti, tesoro, forse stai prendendo questa storia troppo sul serio.
«In prima mocciosi, in seconda gatti, in terza angeli e in quarta ratti!» è solo una canzoncina! Sono sicura che fra due o tre giorni sarà tutto dimenticato.
– Come no – ribattei. – Vallo a dire a Joey. A lui piace essere un ratto. Dice che i ratti sono quasi uomini, che devono rubare le merende ai bambini più piccoli, spaventarli, prenderli in giro... Insomma, essere prepotenti! E questo non è per niente divertente!
– Hai ragione – disse la mamma.
Jerry Spinelli, Quarta elementare, Mondadori